Mer, 19 Marzo 2025
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Cosa resta del Sistema Sanitario Nazionale?

Rispondono in questa intervista due medici del Policlinico di Catania: il dott. Claudio Mauceri e il dott. Alessandro Belvedere

C’era una volta un SSN invidiato da tutti gli Stati. Ogni paziente era incluso, ascoltato e assistito dai medici a cui si affidava. C’era una disponibilità adeguata per la popolazione, il rapporto medico-paziente era di fiducia e rispetto, il contenzioso medico-legale era sconosciuto, la spesa sanitaria era inferiore rispetto agli altri Stati progrediti, e i medici avevano davanti a sé una carriera con valorizzazione del loro operato, sia nel pubblico che nel privato, in base alle loro inclinazioni”.

Comincia così, prima ancora di qualsiasi domanda la chiacchierata con i dottori Claudio Mauceri e Alessandro Belvedere, entrambi operativi al Policlinico di Catania, il primo in radiologia, il secondo al pronto soccorso.

Una chiacchierata che, inevitabilmente, prende una piega diversa, ma certamente non meno interessante. E dopo un esordio così, praticamente obbligatorio, chiedere ai due medici: ma quindi cosa è successo al Ssn italiano? A rispondere è il dott. Claudio Mauceri.

“Gradualmente la favola del SSN italiano si dissolse: gli ospedali divennero aziende, i medici operatori per la produttività aziendale, i pazienti semplici richieste da evadere, il territorio venne abbandonato. La Bindi introdusse l’esclusività per i dipendenti ospedalieri con l’intento di ridurre le liste d’attesa, ma in realtà ciò le incrementò. Inoltre, questo provvedimento ha limitato la disponibilità di medici nel SSN e ridotto le possibilità di carriera e di specializzazione, impedendo un incremento dell’esperienza e della competenza dei medici”.

Ma chi ne trasse beneficio?

“Possiamo dire che questo sistema favorì la sopravvivenza dei grandi gruppi privati a discapito dei piccoli studi familiari che furono falcidiati. Successivamente, arrivò la Spending Review di Monti, con tagli lineari, riduzione del personale e dei posti letto, secondo logiche puramente economiche dettate dall’Europa”.

Un panorama sconfortante che, immagino, sia stato rivoluzionato durante il Covid.

“Assolutamente. A quello che abbiamo raccontato prima seguì la crisi del Covid e il PNRR, con ingenti investimenti in macchinari e strutture, ma non sul personale. Nel frattempo, il territorio continuava a dissolversi, con la cancellazione e l’accorpamento di presidi periferici, che in alcuni casi erano comprensibili, ma senza la creazione di strutture alternative più complete ed efficaci. Le ADI erano praticamente assenti, i posti negli Hospice e nelle RSA erano insufficienti. I medici di base restavano liberi professionisti, non integrati nel sistema sanitario pubblico, sempre più concentrati sugli aspetti burocratici piuttosto che su quelli medici. I dipendenti ospedalieri cercavano di rispondere al numero crescente di pazienti in cerca di aiuto, ignari di cosa li aspettasse”. 

La tela si infittisce. Mi dica, cosa li aspettava?

“Senza un sistema di assistenza territoriale efficiente, il numero delle urgenze aumentava, e i pazienti cronici, dopo il trattamento per alta intensità, venivano abbandonati a sé stessi, riacutizzandosi inevitabilmente e tornando in ospedale, in una spirale senza via di uscita. Con il passare del tempo e la continua riduzione delle risorse, sempre più pazienti venivano esclusi dalle cure. Chi poteva permetterselo si rivolgeva al privato, rinnegando il diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione. Nel frattempo, i grandi gruppi privati crescevano, sovvenzionati con fondi pubblici, distogliendo risorse agli ospedali”.

Immagino che questo rappresenti il punto di rottura dell’anello della fiducia?

“Immagina bene. Come in ogni rapporto di rifiuto e separazione, i pazienti divennero ostili al sistema, che veniva personificato negli operatori sanitari. Queste figure divennero sempre più stanche e depresse, spinte dal profondo senso della missione che sentivano di non riuscire a soddisfare, pressate tra le richieste opportunistiche delle aziende, che seguivano logiche di profitto e relegavano alcune categorie di malati a trattamenti meno convenienti all’oblio. Gli ospedalieri divennero stressati, costretti a inseguire l’incremento costante della produttività e la riduzione delle spese a scapito della qualità, che si ottiene con la specializzazione, il lavoro in équipe e la formazione sul campo. In assenza di sbocchi professionali pubblici o privati, i medici erano costretti a barattare la loro professionalità per le carenze organiche con la continuità del sistema, fungendo da tappabuchi. Gli operatori sanitari venivano inoltre attaccati dai pazienti, con cui i tempi di comunicazione si riducevano sempre più. I pazienti, intanto, erano illusi di avere diritto a una salute come certezza prestazionale gratuita e illimitata, per ogni scopo, senza programmi di prevenzione o consapevolezza nella gestione del rischio sanitario. Purtroppo, la salute non si compra, ma si mantiene o conquista con la cooperazione tra medico e paziente, l’adozione di stili di vita positivi e la prevenzione. La salute non dovrebbe essere solo un mero allungamento del tempo di vita, ma la ricerca di una qualità della vita durevole”.

La conseguenza, dunque, è l’aumento di cause e denunce? 

“Se il paziente, ormai considerato cliente, imbonito da un prodotto pubblicizzato come favoloso, economico e risolutivo, ricevesse invece un prodotto logoro e difettoso, cosa farebbe sentendosi raggirato? Una denuncia! Ma in Italia, la denuncia è rivolta al sanitario, non alla struttura che la fornisce. È come se denunciassimo l’operaio, invece della casa madre che ci vende un prodotto scadente. Il penale per i medici esiste in soli tre Stati al mondo, mentre si sta diffondendo sempre più il sistema No Fault, che ha l’obiettivo di risarcire velocemente chi subisce un danno e adottare misure per evitare che l’errore si ripeta, invece di cercare un capro espiatorio. In questo modello, dove a parole si garantisce la certezza della salute per tutti, in realtà il rischio sanitario viene scaricato interamente sui medici, che non possono eliminarlo, ma solo limitarlo e indirizzarlo verso una strada più favorevole, esclusivamente con un adeguato supporto tecnico-formativo, risorse fisiche e umane, e la collaborazione del paziente”.

Non posso non chiederle a questo punto, che fine fanno i medici?

“I medici hanno dovuto mettere da parte le loro inclinazioni settoriali ed esperienze, diventando sempre più generalisti, “tappabuchi” in un sistema sanitario in continuo stato di emergenza. Questa direzione ha portato all’adozione dei gettonisti, magari importati a basso costo da Stati meno fortunati, nel contesto di un sistema privatistico prestazionale costoso, che aumenta i costi e riduce ulteriormente la qualità, sia nel tempo acuto che cronico, contribuendo alla perdita di competenze settoriali acquisite in decenni. Nel frattempo, ciò che non era urgente prima, con il tempo lo diventa. E allora si travalicano i confini, e tutto viene a concentrarsi nei pronto soccorso, che non riescono a far fronte al disfacimento di un intero sistema sanitario”. 

Con la citazione dei pronto soccorso, come in una partita di calcio, la palla passa al dott. Alessandro Belvedere che vive quotidianamente l’emergenza e, purtroppo, troppo spesso la rabbia di pazienti e familiari che, non di rado, sfocia in azioni di violenza contro il personale medico. 

“La diffidenza tra medici e pazienti cresce, prima in modo silente, poi pubblicamente, alimentata da speculatori che sfruttano la sofferenza del sistema per fomentare un risentimento, con il beneplacito della politica e del sistema assicurativo che ne traggono doppio profitto. Ecco i primi attacchi verbali, poi fisici e legali. I costi sanitari schizzano alle stelle, in un regime di continua emergenza, con un crescente ricorso ai gettonisti tramite cooperative che speculano sulle necessità create, e naturalmente al privato. Si cerca di tutelarsi chiedendo sempre più esami, sempre più inutili. Il 10% della spesa sanitaria viene bruciato ogni anno dalla medicina difensiva, e 2/3 degli esami richiesti, al tempo della medicina basata sull’evidenza e degli algoritmi diagnostico-terapeutici omnipresenti, sono ormai immotivati”. 

Praticamente è un cane che si morde la coda?

“Si perché il sistema entra in tilt: liste d’attesa lunghissime, la gente si riversa nei pronto soccorso, che sono intasati, il carico di lavoro aumenta, così come le aggressioni, le denunce. Ognuno si tutela come può. Alcuni medici chiedono infiniti accertamenti per protezione, altri temporeggiano in crisi decisionale, molti si licenziano e passano al privato, che può offrire condizioni più vantaggiose a minor rischio (per quanto? ndr), mentre la paura e lo stress portano alla paralisi decisionale e allo scaricabarile delle responsabilità. Molti pazienti si rivolgono al privato, che però offre prestazioni sempre più care, essendo limitate le convenzioni. La domanda cresce, e i prezzi lievitano in una logica di mercato. Chi non può permetterselo resta in fila per giorni, finché non esplode in atti violenti”.

Alla fine, poi, la discussione finisce sempre sul settore privato. Ma non era il privato che doveva aiutare il pubblico?

“I privati si offrono di decongestionare la situazione che hanno contribuito a creare, aumentando la spesa sanitaria convenzionata. Ma i privati hanno come obiettivo principale il profitto, non la salute pubblica, né tantomeno la riduzione della spesa pubblica, che aumenta storicamente con la privatizzazione. L’interesse del privato è la produttività, che si ottiene incrementando le richieste, le quali poi investono il pubblico, l’unico ente obbligato ad assorbire le urgenze costose ed economicamente improduttive, mentre tiene per sé gli esami più convenienti. Così, il costo sanitario cresce, e cresce anche il divario tra le prestazioni “comode” del privato e quelle “scomode” scaricate sul pubblico, nonché tra pazienti abbienti e non”.

In questo panorama non si corre il rischio di rimanere senza medici nella sanità pubblica?

“Magari senza no, ma una cosa è certa. I test di ammissione alle specializzazioni diventano nazionali: chi ottiene un alto punteggio sceglie una specializzazione priva di rischi, mentre quelle di emergenza restano deserte. I pronto soccorso si popolano di giovani inesperti, senza tutoraggio, che cercano di tutelarsi con un numero sempre maggiore di indagini, ma che spesso si licenziano entro il primo anno, al primo avviso di garanzia. Stiamo per perdere competenze acquisite in decenni, stiamo perdendo l’interesse e la dedizione dei giovani, l’esperienza degli anziani e la fiducia e il rispetto dei pazienti, per privatizzare un sistema che era fondato sul rapporto di cura e fiducia con il paziente. Stiamo cercando di imitare un sistema privato, che ha caratteristiche e natura ben diverse, libero da vincoli e orientato al profitto. Per farlo, il servizio pubblico viene costretto a competere con il privato, ma con entrambe le mani legate. Lo scopo non è la morte del SSN, ma la sua lenta agonia, finché la popolazione non sarà pronta ad accettare un cambiamento di paradigma, dove non la nascita, ma il reddito darà diritto alle cure”.

Alessandro Fragala'
Alessandro Fragala'
Laureato in Scienze della Comunicazione e specializzato in Culture e Linguaggi per la comunicazione all'Università di Catania, diventa giornalista nel 2010 collaborando con l'emittente Antenna Sicilia. Si occupa di sport e in particolare delle vicende del Calcio Catania. Nel 2015 fonda insieme ad altri colleghi l'agenzia Sicra e diventa direttore di Sotto il cielo Rossazzurro, portale web e programma radiofonico in onda su Radio Antenna Uno e Radio Catania. Nel 2016 diventa capo redattore dell'emittente Medical Excellence e redattore di BlogSicilia. Nel 2018 diventa direttore di Futura Production e successivamente del telegiornale di TeleJonica. Conduce su VideoRegione e TeleJonica programmi di successo come Incontri, Teste di calcio, Solo Chiacchiere, Tazebao, Aperinews e le dirette della Festa di Sant'Agata 2020 e 2021. Attualmente Direttore responsabile di SudSport, inserto sportivo di SudPress e capo ufficio stampa del Mpa.

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